Le avventure di Bertoldo e Bertoldino

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Titolo: Le avventure di Bertoldo e Bertoldino
A cura di Serena Fiandro
Illustrazioni di Luca Bonora
Editore: I Doni Delle Muse
ISBN: 978-88-99167-24-0
Pagine: 120
Prezzo: 10 euro

DALLA QUARTA DI COPERTINA
Alla corte di Alboino, sovrano dei Longobardi, si presenta un giorno Bertoldo, il villano più brutto che si sia mai visto, giunto dai monti intorno a Verona per scoprire come sia fatto un re. Malgrado l’aspetto, Bertoldo è dotato di un’intelligenza pungente che diletta Alboino e irrita le dame di corte e la regina, decisa a fargli pagare la sua insolenza. Il villano dovrà usare tutta la sua straordinaria arguzia per togliersi dai guai.
Tra battute, favole, avventure e trovate sempre nuove ed esilaranti, uno dei romanzi più divertenti della letteratura italiana, scritto all’inizio del Seicento da Giulio Cesare Croce.

DAL LIBRO
Nel tempo in cui Alboino, re dei Longobardi, si era impadronito di quasi di tutta l’Italia e aveva preso sede nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano chiamato Bertoldo, deforme e bruttissimo d’aspetto. La natura tuttavia l’aveva dotato dell’ingegno più vivace, rendendolo arguto e pronto nelle risposte.
Bertoldo era piccolo, con il capo grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come il fuoco, le ciglia lunghe e ruvide come setole di porco, le orecchie asinine, la bocca grande e storta con il labbro di sotto che pendeva come quello di un cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella di un caprone, il naso adunco con narici larghissime, i denti in fuori come un cinghiale e, come se non bastasse, tre o quattro gozzi sotto la gola che quando parlava sembravano tante grosse pigne che ribollivano in pentola. Inoltre aveva le gambe caprine come un satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo ricoperto di peli; le sue calze erano di canapa grigia rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacchi. Insomma, era tutto il contrario di Narciso.
Come vi dicevamo, un giorno Bertoldo venne a corte. Passò in mezzo a tutti i signori e i baroni, senza levarsi il cappello né fare atto di riverenza, e andò a sedere vicino al re, il quale, essendo benevolo di natura e dilettandosi con gli scherzi, immaginò che costui fosse stravagante, poiché la natura spesso infonde in simili corpi mostruosi particolari doti. Pertanto, senza alterarsi, iniziò a intrattenersi piacevolmente con lui.

A PROPOSITO DI BERTOLDO
Il testo qui presentato, scritto nel Seicento da Giulio Cesare Croce, è costituito in realtà da due libri, pubblicati nel 1606 e nel 1608, che vedono come protagonisti rispettivamente Bertoldo e suo figlio Bertoldino. La figura di Bertoldo tuttavia è molto più antica e risale all’Alto Medioevo. Croce si ispira infatti a un personaggio che si chiamava Marcolfo (come la Marcolfa moglie di Bertoldo), un villano astuto che conversava niente meno che con Salomone.
L’opera di riferimento, chiamata
Contradictio Salomonis (cioè dialogo di Salomone), viene citata in un decreto del VI secolo attribuito a papa Gelasio come testo proibito per i contenuti ironici e parodistici a danno del grande re biblico. Ma come sempre avviene nella storia, più un testo è proibito e più diventa popolare, così risulta davvero facile che si diffonda e venga conservato. Infatti intorno all’anno Mille un abate del monastero di San Gallo ne riporta delle parti e nel 1400 è stato redatto un manoscritto proprio di questo testo.
A Giulio Cesare Croce questo personaggio andava particolarmente a genio, soprattutto gli piaceva l’idea di un villano così astuto da mettere in difficoltà i dotti e i sapienti, e lo rielaborò, ambientando le sue avventure a Verona nel periodo della dominazione longobarda e trasformando re Salomone in re Alboino.
Giulio Cesare Croce era un autore un po’ particolare. Diversamente dagli altri scrittori della sua epoca, non era un letterato. Malgrado suo padre e suo zio, entrambi fabbri, avessero tentato in vari modi di farlo studiare, per varie vicissitudini Giulio Cesare Croce non era mai riuscito ad avere un’istruzione degna di questo nome, anche se poi nel corso del tempo riuscì a leggere per conto proprio diversi libri. Tuttavia amava così tanto scrivere, inventare storie e comporre versi che gradualmente abbandonò il mestiere di fabbro per vendere i propri numerosissimi libri al mercato, riscuotendo un certo successo tanto alla corte dei nobili quanto presso le persone del popolo. Come Bertoldo, non volle mai adulare i ricchi e i potenti, ma disse sempre quello che pensava. Morì povero, dopo avere avuto quattordici figli da due mogli diverse, metà dei quali già morti durante la redazione dell’autobiografia in versi che abbiamo utilizzato per scrivere questa breve nota.